La chiamavano newyorkite

World trade center New york city

Oggi ti parlo di una strana malattia: la newyorkite.

Se la hai anche tu, e secondo me se sei capitata qui, probabilmente è così, continua a leggere.

Correva l’anno 1994.

Danny, Doris e Leroy, fedeli compagni del post-liceo, nel mio telefilm preferito: FAME.

La vera protagonista di quella serie non era però un’attrice.

Era una città, oserei dire, la città, un luogo che ai miei occhi di adolescente sognatrice sembrava quasi irreale, come il regno di OZ, la città dove tutto è possibile: New York City.

A quei tempi New York era lontanissima per me. I costi degli aerei erano esorbitanti.

Ma lei continuava ad essere la Star di altre serie tv (Friends, Sex and the City) e di grandi film (Carlito’s way, Do the right thing, C’era una volta in America, Harry ti presento Sally, Wall Street, Vanilla Sky e la lunga lista dei film di Woody Allen).

Il giorno in cui, ormai trentenne, uscivo dalla subway newyorkese e, con la testa all’insù e la bocca spalancata vedevo i grattacieli per la prima volta, non lo dimenticherò mai.

Era come se in quella città ci fossi vissuta da sempre.

Dentro il vagone della metro verso Brooklyn, noi unici bianchi come in un film di Spike Lee.

L’attesa dei maratoneti a Central Park con, in mano, il beverone bollente (non ne avevo mai capito l’utilità), perfetto scaldino nei giorni gelidi.

La vista di Manhattan al tramonto dallo Staten Island Ferry, il traghetto arancione più famoso del cinema.

Fermami perché potrei proseguire per ore e ore e soltanto chi soffre della stessa malattia, la newyorkite per l’appunto (e ce ne sono tanti), potrebbe non annoiarsi.

Qui invece vorrei raccontarti del perché un bel giorno incontrai un poliziotto che mi disse: -“There’re a lot of good guys in New York!”-.

New York dal Top of The Rock newyorkite

Una storia newyorkese

Era il mio secondo viaggio nella City, con la mia migliore amica… e meno male che c’era lei!

Il giorno dopo il nostro arrivo, complice la distrazione da jet-lag, in metro mi rubano lo zaino con dentro: portafogli, documenti (passaporto incluso), un paio di Rayban (che non erano importanti come il resto ma ci tenevo parecchio) e un brownie di Fat Witch appena preso al Chelsea Market (che pure quello mi rodeva un po’).

Panico!

In USA, senza un soldo, passaporto, né carte di credito.

Per fortuna avevo il cellulare in tasca e ho potuto bloccare subito le carte ma, da quel momento, è iniziata una giornata che definire tragicomica è riduttivo.

La guardiola della metro dice che lì non ci sono telecamere (Ehhhhhh? A New York, in metropolitana non ci sono telecamere???? Ma di che sta parlando?).

Ci manda all’ufficio Lost&Found, e da qui a un ufficio di polizia in un’altra stazione della metro.

L’agente, che non ho ancora capito se mi stava bellamente prendendo in giro, mi dice: -“Il passaporto è una cosa seria – (ma va?!?) – Sai per il terrorismo”-.

Aiuto!!!!!!!!!!!!!!

Dice che ci dobbiamo rivolgere a un detective e ci manda, ebbene sì, a un’Accademia di Polizia.

Sì, proprio come quella dei film demenziali, con i cadetti che si allenano davanti ai nostri occhi.

Arriviamo nell’ufficio del detective e la situazione mi ha fatto rimpiangere i nostri uffici pubblici.

Non avevano neanche internet. Alla fine ho preso le pagine gialle e gli ho chiesto: -“Mi dite dove devo andare?”-.

Ci mandano, sì, stai ascoltando proprio bene, al palazzo dell’ONU perché, secondo loro, lì dentro, avremmo potuto parlare con qualcuno del consolato italiano.

E secondo te, cos’è successo appena arrivate davanti al famoso palazzo di vetro? Due guardie si catapultano di corsa per sbarrarci la strada.

Newyorkite: una storia tragicomica

Lo so, lo so, stai ridendo a crepapelle.

E ti assicuro che anche noi, nonostante la paura della terrorista che viaggiava sotto la mia identità, non sapevamo se ridere o piangere.

Ancora una volta ci mandano in un ufficio sbagliato, una specie di rappresentanza italiana.

Lì ci parla da un vetro un carabiniere italiano, di quelli che vedi solo nelle parate. Alto, moro, bello: mai visto uno così in Italia.

Sente che siamo italiane e ci apre la porta e io (te lo giuro, io sono una che non ama molto il contatto fisico) me lo sono letteralmente abbracciato. Volevo piangere tra le sue forti braccia e farmi salvare come le principesse nelle favole della Disney.

Usciamo da lì un po’ più tranquille (si fa per dire – ero sempre senza soldi e senza documenti a migliaia di km da casa): l’adone in divisa ci consiglia di andare l’indomani mattina all’ambasciata italiana “che sicuramente loro risolveranno”.

“There’re a lot of good guys in New York!”

Ed è proprio a questo punto della storia che incontriamo il poliziotto di cui ti parlavo prima. E quella frase -“A New York ci sono tanti bravi ragazzi”- me la ricorderò per sempre.

Io e la mia amica determinatissima e anch’ella affetta da newyorkite cronica, dopo una puntatina al centro buddista di Union Square (che ormai le avevamo provate tutte, potevamo non tentare la chance della preghiera?), torniamo a casa.

Mi collego al wi-fi e leggo un’email che, tradotta, fa un po’ così:

Ciao, se sei Noemi, un mio collega ha trovato il tuo portafogli. Per favore, contattami per trovare una soluzione. Io sono a Manhattan. E tu? C’è una ricevuta di airbnb per via …… a Brooklyn. Possiamo incontrarci alla metro X davanti all’entrata del treno C alle 21,45. Ti va bene?

Mi va bene?????????

Alle 21,45 di quel funambolico giorno, J.S., un vero good guy newyorkese, si presenta a due passi da casa con il mio portafogli, tutti i documenti e le carte di credito.

Non c’erano i dollari, lo zaino e gli occhiali (e nemmeno il brownie ahimè!) ma il nostro viaggio è tornato ad essere la vacanza spensierata di due grandi amiche.

Lasciami dire solo questo:

Grazie Sister, Grazie J.S.!

Grazie New York, grazie New Yorkers!

Adozione internazionale: il mio parto al contrario

Racconto di un’adozione internazionale al contrario.

Prologo

Afa romana di inizio Maggio. Io che annaspo in salita con le borse della spesa in mano.

Donna settantenne del quartiere che mi punta all’orizzonte. No, ti prego, non mi fermare.

– “Buongiorno, come va?” – Le mie braccia piangono in silenzio.

– “Bene, grazie, Lei?”-

– “Bene, bel tempo oggi, vero?” – Ma perché te devono chiedere sempre del tempo? Non lo vedi da sola? Basta alzare gli occhi al cielo.

– “Certo, adesso si vede che sei più felice” –

I miei occhi sgranati e la mente che si arrovella per capire madichestaparlando?!

– “Sì, adesso che hai la bambina”-

Ahhhhh… Ora capisco. E penso, quindi tutte le volte che m’incontrava prima, devo aver avuto una faccia tristissima perché invece oggi, con le buste della spesa piene e il sorriso forzato, mi vede TANTOOO felice.

Ecco arrivare un altro vecchietto con la macchina. Accosta e la saluta. Ringrazio la provvidenza e velocemente approfitto per scappar via.

– “Vabbè, allora vado. Buona giornata” –

Che poi però ho pensato: quindi una donna è felice solo dopo aver avuto un figlio? Prima è una specie di nulla in attesa di completarsi?

Adozione internazionale – Capitolo 1 (forse l’unico)


adozione internazionale

Ho sempre avuto fidanzati desiderosi di procreare, così tanto paterni.

Ma non erano le donne quelle che insistevano per avere figli? Anche in questo sono sempre stata alcontrario, ahimè!

Vogliamo parlare poi dell’orologio biologico? Ma che è? E soprattutto perché a me non è mai scattato?

Quando ero piccola, giocavo con le macchinine di mio fratello. Mi piaceva fare il portiere nelle partite di calcio dei miei amici, rigorosamente maschi.

C’era un’unica bambola che adoravo, la chiamavo Kuntaki, era nera come la pece e riccia come solo il riccio africano può essere.

Ci ho giocato e giocato e l’ho anche distrutta, non ricordo se le ho spezzato un braccio o una gamba.

Credo che mia madre l’abbia gettata in uno dei suoi raptus da buttoviaqualunquecosaincontrosulmiocammino. Uno dei grandi traumi della mia infanzia!

Beh, sta di fatto che quando nella mia testa iperattiva si è affacciato il pensiero che mio figlio sarebbe stato africano, mi sembrava la cosa più naturale della terra.

Meno naturale la burocrazia che ha allungato di ben 3 anni la gravidanza dei comuni 9 mesi.

Meno naturale il fatto che tutto il mondo si facesse i fatti tuoi, anche su questioni piuttosto intime (che siccome sei intelligente, puoi intuire da sola/o).

La nostra adozione internazionale “è stata una scelta”

Inutile dirti quante facce sgomente abbia visto al cospetto della mia sentenza: “Ma sai, è stata una scelta”.

Una scelta? Ma che sta a dì questa? (versione siciliana macomeècumminatachista) scritto sulla fronte della mia interlocutrice a caratteri cubitali.

Nemmeno chi di dovere se n’è fatta una ragione, figuriamoci gli altri, le mamme in prima linea. Nessuno credeva alla mia versione, credo che in tanti non ci credano ancora adesso.

Poi ci sono quelli: – “Uh, che bravi! Che bella cosa avete fatto!” – come se adozione internazionale volesse dire salvare il mondo.

Ma la frase più bella, eccola qui!

Sai, magari dopo l’arrivo del bambino, verrà naturalmente uno tuo”.

Ehhhhhhhhhhhhhh???????

Ci sono due cose che in questa frase tanto sentita, non capisco:

1) Intanto stai già decidendo che io non possa avere figli, il che oltre a non essere vero (ti ho detto che è stata una scelta!!!), è affare solo mio e di mio marito.

2) Perciò questo bambino non è mio? O non è mio abbastanza?

È femmina!

Di Catherine, perché poi è arrivata una femmina (ma sai, io il sesso non volevo saperlo prima), posso dire che se avessi dovuto scrivere come l’avrei voluta, non avrei potuto essere più precisa.

Catherine è mia figlia dal primo riccio sulla testa al mignolino del piede.

Quello che dice e che fa, come pensa, come si muove, i suoi desideri, la sua ironia, il suo broncio, la nostra telepatia, la sua fisicità nel dimostrare l’affetto, sembra che qualcuno l’abbia programmata per arrivare da me.

Tutte le volte che scrive di me è come se mi conoscesse meglio di chiunque al mondo.

Sa leggermi come nessuno ha mai fatto prima.

Mi guarda come non ha mai fatto nessuno.

Non so spiegare questa cosa con le parole, so solo che siamo fatte della stessa pasta.

E tutto questo io non lo sapevo prima di conoscerla, è stata una sorpresa continua, una sorpresa chiamata adozione internazionale.

Non sono diventata mamma, sono diventata la mamma di Catherine.

Poi un bel giorno mi ha detto: – “Mamma, sai che io penso che tu mi hai nato?” –

E io so per certo che quel 28 di agosto, quando lei, nei 50 gradi velati di smog all’aeroporto di Kinshasa, mi è corsa incontro, placcandomi con la forza che solo una bambina africana possiede, e buttandomi giù per terra in posizione fetale, quel giorno, senza alcun dubbio,“l’ho nata” io.

So che per molti resterò una povera mattaillusacredulona ma io invece ho questa strana sensazione che non se ne vuole andar via, che io e lei ci stavamo cercando e ci siamo solamente ritrovate.

Together, “la casa di tutti”

Confesso. Non ho vizi (quello per le scarpe non conta, vero?).

Non bevo, non mi drogo, non fumo (da parecchio ormai), ma soffro di una forma di dipendenza virale: Internet.

Capirai…una curiosa come me, sempre alla ricerca di cose nuove che mi ispirino e, nei giorni peggiori, mi diano speranza, come può fare a meno di surfare sul web?

È così che un bel giorno di quasi un mese fa, cercando, cercando, mi sono ritrovata sul blog di un cross-inspirational place. What’s that?

Non ci provo neanche a spiegarti di che si tratta ma te lo faccio raccontare dai due tipi (non loschi) che gestiscono Together.

Perché nel frattempo ho partecipato a due eventi della “casa” e ho fatto la loro conoscenza.

Per la cronaca, io già li adoro e dopo aver letto l’intervista, li adorerai anche tu!

Together Trastevere

Chi c’è dietro Together

1- Ciao Ernesto, Ciao Michela, ci raccontate in breve chi siete?

Ciao, io sono Ernesto, un “non-più-giovane” abruzzese, ex speaker radiofonico di un emittente locale. Partito in giro per il mondo con il solo obiettivo di imparare l’inglese, sono tornato a casa carico di idee e di entusiasmo.

Ho fondato la mia prima start-up, un progetto sul quale ho lavorato qualche anno, prima di evolverlo e trasformarlo in Together.

E io sono Michela, studentessa di marketing e comunicazione on-line. Ho conosciuto Ernesto quando ero alla ricerca di uno stage da svolgere per l’università. Ho risposto a un annuncio di una start-up che cercava collaboratori per gestire la comunicazione on-line e ho trovato Ernesto. Avremmo dovuto collaborare per un mese e, dopo tre anni, siamo ancora qui.

Entrambi laureati in Scienze della Comunicazione a La Sapienza, siamo quelli che raccontano cosa succede nelle “case di tutti”.

2 – Cos’è TOGETHER e come vi è venuta in mente?

Together è un’idea di Ernesto, ispirata a realtà conosciute oltreoceano, durante la sua permanenza a San Francisco. Una combinazione di idee ed esperienze differenti che hanno dato vita a una realtà unica.

Together è innanzitutto una casa, nel cuore di Trastevere, a Roma. Una casa, il luogo informale per eccellenza, perché siamo convinti che le conversazioni migliori nascano quando si è rilassati e che, raccontando le proprie storie, ci si può ispirare a vicenda, ci si può incontrare e supportare, lavorando per la realizzazione dei propri progetti.

Un posto dove scambiarsi conoscenze e competenze, per far sì che finalmente venga riscoperto il piacere di osare, mettersi in gioco, inseguire i propri sogni e lavorare su progetti originali basati sulle proprie passioni.

Un posto dove le persone hanno la possibilità di contaminarsi di quella positività che in Italia sembra essere stata sommersa da ondate di radicato pessimismo. Molto spesso, infatti, persone brillanti non riescono a mettere a frutto le proprie passioni e i propri talenti perché scoraggiati da un sistema che impone obiettivi diversi. Together nasce per superare questo pessimismo. Siamo un popolo di artisti, non dobbiamo dimenticarlo mai.

3 – C’è un evento che avete amato di più nella casa?

A Together è possibile realizzare qualsiasi tipo di evento che sia in linea con i principi guida del progetto. È difficile sceglierne uno tra tutti quelli che abbiamo ospitato.

Abbiamo avuto cene preparate da chef, presentazioni di libri, sessioni di meditazione, rappresentazioni teatrali, concerti, mostre fotografiche, proiezioni di documentari auto-prodotti, workshop e corsi di diverso tipo. Ogni serata è stata resa speciale dall’atmosfera che si è respirata tra le mura di “casa” e dalle persone che vi hanno partecipato. Sarebbe ingiusto fare una classifica.

4 – Ci rivelate un progetto futuro?

Together è un progetto aperto, in continua crescita che si arricchisce ogni giorno grazie al contributo di chi decide di collaborare e supportare le nostre iniziative.

Noi stiamo crescendo con lui. Stiamo imparando tante cose da tutte le persone che passano a casa.

Vorremmo riuscire ad estendere questa esperienza in giro per l’Italia. L’idea è sicuramente quella di aprire altre case, con persone che desiderano farlo, volenterose di diffondere questa filosofia positiva.

E tu, conosci una realtàalcontrario che vorresti raccontarci?

Tatuaggio? Ma che sei matta?

Qualche anno fa, e con “qualche” sto mentendo spudoratamente perché intendo parecchie stagioni or sono, incontrai sulla mia strada, o meglio su un set, un interessante esemplare di maschio adulto.

Ne ho incontrati tanti di esemplari, ma questo era davvero carino, dolce, un pò orsacchiotto.

Che te lo dico a fare, mi ero presa una bella cotta!

Il tal ragazzo, un discreto artista, si offrì con grande entusiasmo di disegnare per me un tatuaggio.

E ne parlò a lungo, per tutta la durata del lavoro, ma il lavoro finì. Di lavori ce ne furono altri, e altri di set ma del disegno nessuna traccia.

Non nego che sul momento ‘sta cosa mi fece rosicare’.

In fondo era stato lui a proporsi, mica gliel’avevo chiesto io… e giù con i discorsoni sulla coerenza, sulle parole dette e non mantenute, una vera e propria pippa mentale… ma si sa a vent’anni di pippe se ne hanno molte (seeeeee, perché adesso no, eh?!).

Un tatuaggio che solo io avrei potuto disegnare

Gli anni, come dicevo, sono passati ma l’idea del tatuaggio ogni tanto riemergeva.

Finché l’anno scorso mi ronzava per la mente un disegno che sarebbe stato perfetto per me e che solo io avrei potuto disegnare.

Te l’ho detto che non credo al caso, vero?

Beh, un bel giorno di Novembre in una delle chat di whatsapp (da cui di solito scappo per via di quei bip ripetuti all’infinito, ma quella è una delle mie preferite) mi arriva questo messaggio:

“Ragazzi approfitto di questo canale di comunicazione per fare un piccolo un annuncio… sono finalmente pronta, prontissima per tatuare!!! Chiunque volesse farsi scarabocchiare un po’ mi contatti…”.

Io ho questa qualità, e me la riconosco, che quando sento di potermi fidare di qualcuno, non lascio che il dubbio mi offuschi questa certezza.

Elena, la ragazza che aveva scritto il messaggio, non la conoscevo benissimo.

Per la verità l’avevo vista qualche volta e non ci avevo scambiato molte parole. Ma ero certa che fosse lei quella giusta.

C’erano tutte le condizioni: avevo chiaro il disegno, avevo la tatuatrice e, cosa non da poco, mi sentivo pronta per questo passo (capirai…mica mi dovevo sposare…).

Un solo incontro per conoscerci e per mostrarmi l’attrezzatura (confesso, volevo controllare l’igiene, ma il mio istinto non si era sbagliato: Elena è superattentaprecisapulita) e l’8 Gennaio, qualche giorno dopo il mio compleanno, avevo il tatuaggio sulla mia spalla destra.

Nessun dolore da cui in tanti mi avevano messo in guardia.

Veloce rimarginamento grazie anche alla mia bio-vasellina (vedi post sullo spignatto).

E soprattutto la sensazione chiarissima che adesso il mio corpo fosse completo.

Era così che doveva essere da sempre.

Insomma una gran figata.

Il mio tatuaggio

E cosa c’è di “al contrario”?

Tu dirai, vabbè, ma i tatuaggi se li fanno in tanti. Che c’è di davvero al contrario?

Ed è qui che entra in gioco il tormentone della mia vita.

Ladies and gentlemen, ecco a voi… le critiche gratuite.

E non parlo di quelle più comuni come “il tatuaggio non lo cancelli più”, “è volgare”, “non è femminile” che ovviamente ci sono state e che tra l’altro non condivido affatto. A me il tatuaggio sembra così sexy!

Parlo di una in particolare, la più bella. Ringrazio ancora la persona che me l’ha rivolta.

“Alla tua età vuoi fare la pischella, con la frangia e il tatuaggio!”.

Ringrazio non perché mi ha già messo un piede nella tomba con quel “alla tua età”, ma perché mi ha fatto ripensare a quel ragazzo e al fatto che, se avessi accettato di farmi tatuare il suo disegno, avrei sul mio corpo un marchio indelebile del suo modo di vedermi, quello di un uomo che ho incontrato nella mia vita in non più di 3 o 4 occasioni, che ha detto di voler fare una cosa e poi non l’ha fatta (la categoria di persone che più non sopporto) e che non ho più rivisto da allora.

Il disegno che ho sulla spalla destra non avrei potuto disegnarlo a 23 anni perché non c’era ancora stata l’esperienza più eccitante della mia vita che adesso porto sulla mia pelle, non c’era stata quell’emozione e non c’era stata la rinascita dovuta a quel momento, grazie ai cavalli.

E soprattutto non lo avrei disegnato io, ma avrei permesso a un’altra persona di decidere per me.

Ancora una volta.

È questo che quelle critiche pensavano di fare: decidere per me. Ancora una volta.

E tu? C’è una critica che hai ricevuto e in qualche modo ti ha ostacolato nel realizzare un tuo desiderio? Se ti va, scrivimelo in un commento.